giovedì 26 maggio 2011

Mediazione " obbligatorietà "

"L'obbligatorietà c'è e ci sarà, rimane, è un punto che serve a introdurre questa idea nella società italiana". Questo è quanto affermato dal ministro Angelino Alfano, al convegno 'Mediazione fra efficienza e competitività'. Questo cari amici mette a tacere gli scettici, La Corte Costituzionale anche se, dovesse smentirsi (considerato che si è già espressa sul tema dell'obbligatorietà), rilevando vizi gli stessi potranno essere sanati con una legge successiva. Molto applaudito l'intervento della Iannini. Di pura partigianeria l'intervento del presidente Alpa del CNF, che la gremitissima platea dei mediatori non ha gradito.

Il ministro Alfano, inoltre ha, anche ammonito la platea di operatori del diritto sull'importanza che il governo attribuisce alla "qualità". Secondo quanto ha annunciato il ministro "gli organismi saranno guardati con occhi non distratti né benevoli: saremo attentissimi al rispetto delle regole. Gli imbrogli tanto si scoprono sempre, e chi li fa lo fa a danno di se stesso e di tutti gli altri, perché quando vengono scoperti vengono poi rimessi in discussione gli istituti".

Anche gli interventi del responsabile del Registro dott.ssa Saragnano e del magistrato dott. Triscali, in merito alla richiesta degli atti autorizzativi a poter mediare (PDG), per quelli che si sono iscritti ad organismi di conciliazione - pur chiedendo scusa per il ritardo - hanno chiaramente detto che senza autorizzazione, quelli non in possesso di PDG NON POSSONO ESSERE DESIGNATI, è necessario prima valutare i requisiti autocertificati e dopo se ne parlerà. La stessa cosa ha ribadito per i nuovi formatori, in merito alle pubblicazioni scientifiche. Sono valide solo quelle che parlano di mediazione civile.

Al seguente link l'intervento del ministro On. Angelino Alfano

http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_6_8_1_1.wp?previsiousPage=mg_6_9&contentId=NVA640827

(fonte A.N.P.A.R.)

domenica 15 maggio 2011

1) Mediazione civile: rivoluzione o fallimento? 2) Mediazione Privacy

Il nuovo strumento giuridico chiamato in mille modi diversi
Mediazione civile: rivoluzione o fallimento?

Il paragone che segue rende molto bene l'idea. Quale sarebbe stato l’esito della Rivoluzione francese se, invece di un solo motto universalmente riconosciuto e divulgato da tutti quanti ("libertà, uguaglianza, fratellanza"), alcune persone avessero iniziato ad utilizzarne altri, apparentemente simili, ma comunque differenti? Ad esempio, "autonomia, parità, solidarietà" o "indipendenza, uniformità, amicizia".
La risposta si suppone scontata: probabilmente la Bastiglia mai sarebbe stata presa, visto che sarebbero stati ben pochi i rivoluzionari a conoscere bene i veri ideali per i quali si combatteva.
In questi giorni, sta accadendo qualcosa di molto simile. Il riferimento è all'introduzione di un nuovo istituto giuridico che, nelle intenzioni di molti, dovrebbe rivoluzionare la giustizia civile italiana.
Ufficialmente la legge ed il Ministero della Giustizia chiamano questo strumento Mediazione Civile (abbreviazione di Mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali). Invece, chi non lo conosce bene oppure chi non vuole fargli pubblicità lo chiama in mille modi diversi, uno più fantasioso dell'altro e soprattutto tutti sbagliati e fuorvianti (conciliazione, mediazione conciliativa, media-conciliazione, media-mediazione, conciliazione obbligatoria, mediazione obbligatoria, ecc.).
I motivi alla base di questa straordinaria "inventiva linguistica" sono essenzialmente un paio. Da un lato, vi sono coloro che pretendono di parlare della mediazione civile senza aver neppure letto la norma che la disciplina (D.Lgs. 28/2010). Dall'altro, vi sono i contrari alla sua introduzione, i quali hanno tutto l'interesse a fare in modo che essa venga associata a nomi ridicoli e privi di attinenza allo scopo di farle perdere credibilità ed impedirne la diffusione.
Cosa accadrà adesso? Gli scenari possibili sono soltanto due. O la mediazione civile è destinata a fallire vittima del caos esistente (e quindi questa moderna Bastiglia mai potrà essere espugnata) oppure i nomi di fantasia si trasformeranno in boomerang e si ritorceranno contro chi li ha coniati. La “creatività terminologica” di costoro, infatti, è sintomo di scarsa preparazione giuridica, visto che in tutte le facoltà di Giurisprudenza si insegna a non utilizzare sinonimi e vocaboli similari quando si opera in un campo rigoroso quale è quello del diritto.
L'unico dato certo è che, già ora, le fondamenta della Bastiglia in questione sono piene di profonde crepe che si allargano ogni giorno di più. Non a caso, sono in tanti a ritenere che sia molto vicino il momento in cui la mediazione civile riuscirà a far crollare quelle poderose mura travolgendo tutti coloro che oggi, più o meno consapevolmente, remano contro l’introduzione di questo strumento.

(Si ringrazia per l'articolo Anna Russo)

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Mediazione a prova di Privacy con le regole del Garante su :

http://www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto/civile/civile/novitaNormative/2011/05/mediazione-a-prova-di-privacy-con-le-regoledel-garante.html

(Si ringrazia per la segnalazione Erica Zacchini)

venerdì 13 maggio 2011

Non è giustificato l’allarmismo da parte degli Organismi di Mediazione

La prima riflessione del presidente dell’organismo Internazionale di conciliazione & arbitrato dell’A.N.P.A.R, a seguito dell’incontro del Ministro della Giustizia, con il C.N.F (Consiglio
Nazionale Forense) e le unioni regionali degli ordini degli avvocati è quella che il Ministro ha fatto finalmente intendere che bisogna dimenticare il passato , perché solo così si costruisce - una buona base di partenza della mediazione civile e commerciale - nel futuro.

Purtroppo, per chi pretende che le radici del pensiero della mediazione civile sono nate certamente dal cervello di chi non ha mai avuto a che fare con i sistemi alternativi di risoluzioni extragiudiziali, l’incontro e quanto si è detto fra i convenuti è di una tendenza preoccupante per gli organismi.

Che cosa sono gli organismi di conciliazione? L’ente pubblico o privato, ovvero la sua articolazione, presso cui può svolgersi il procedimento di mediazione. L’organismo come definito dalla legge non è un “ente d’affari” è ben altro. E’ assunzione di responsabilità, disponibilità a creare lavoro per i mediatori professionali, competenza nei sistemi di A.D.R. , mediazione civile e commerciale compresa.

E’ perfettamente vero che ognuno può esprimere un parere sull’incontro del ministro Angelino Alfano con il C.N.F e le unioni regionali degli ordini degli avvocati, ma ciò non significa screditare quanto stanno facendo di buono per i mediatori professionali ed in particolare per i giovani. Il comunicato stampa dell’esito dell’incontro, pubblicato sul sito del Ministero di Giustizia, e le dichiarazioni in esso contenute , fanno opinione sui cittadini e sui mediatori perché a leggerle bene spingono a condividere ed a dialogare e non a contestare. Non c’è nulla da contestare, afferma il presidente Pecoraro. Gli organismi di conciliazione non sono “centri affaristici” ma solo luoghi dove si svolge l’attività di mediazione a favore dei cittadini. La mediazione civile non s’impone si propone alle parti in lite da parte del mediatori e tutti i “chiacchiericci” al di fuori della legge 28/2010, trovano il tempo che trovano.

La mediazione civile non è una continua commedia e gli organismi di conciliazione non ne sono i protagonisti. I protagonisti sono i mediatori professionali e bene fa il Ministro ed il ministero ad intervenire a favore di questi.

Di tutta questa storia continua Pecoraro, la cosa che più dispiace è il ritardo del rilascio da parte del ministero di un atto autorizzativo, da parte del Responsabile del Registro, atteso da oltre tre mesi che consente a chi è già mediatore di poter essere designato a dirimere le controversie ed inserirsi così nel modo del lavoro.

( Fonte: Uffico stampa ANPAR )

martedì 10 maggio 2011

Mediazione civile: svelata la strategia dei detrattori


E' forse finalmente chiara la strategia che spinge coloro che sono contrari alla mediazione civile e commerciale a evitare in tutti i modi di pronunciare il suo vero nome. Si tratta pur sempre di un'ipotesi, ma che risulta in questo caso altamente probabile perché si basa su alcune ammissioni sfuggite ai diretti interessati e, soprattutto, su semplici verifiche che chiunque può fare.
Ma andiamo con ordine. Probabilmente in molti si saranno accorti del fatto che lo strumento giuridico introdotto dal D.Lgs. 28/2010 è chiamato in mille modi differenti. Il Ministero della Giustizia e in generale tutti coloro che sono favorevoli a questo nuovo istituto lo chiamano con nomi in linea con le definizioni fornite dalla legge: ossia, "mediazione civile e commerciale" o semplicemente "mediazione civile". Oltre ai nomi ufficiali, sui mezzi di informazione vengono utilizzati (in verità, sempre meno) altri nomi, del tutto inesatti, ma che comunque sono frutto più di una scarsa conoscenza della materia che di una vera volontà denigratoria: "conciliazione" (tout court), "mediazione conciliativa", "conciliazione obbligatoria", "mediazione obbligatoria", ecc. Infine, e arriviamo al punto, vi sono i contrari alla riforma i quali hanno inventato un vero e proprio nome alternativo che utilizzano quotidianamente per parlare male dell'istituto: "media-conciliazione" (tra l'altro, con le due parole ora scritte staccate, ora attaccate, ora col trattino, con la sbarra o altro).
Pur essendo chiaro sin dall'inizio lo scopo di cotanta creatività linguistica (ossia creare confusione tra la gente per impedire la diffusione dello strumento), sino ad ora sfuggiva ancora il modo preciso con il quale si mirava a raggiungere questo risultato.
Anche stavolta, una possibile risposta viene fornita da Google, il principale motore di ricerca al mondo, e si basa sulla considerazione che, al giorno d'oggi, qualunque tipo di informazione passi inevitabilmente attraverso internet. Immaginiamo che un cittadino qualsiasi voglia trovare in rete alcune notizie sull'argomento. Ebbene, qualunque ricerca effettuata utilizzando il nome "mediazione civile" gli restituirà sempre, come risultato, una serie di siti web (primo fra tutti, quello del Ministero della Giustizia) che parlano di questo istituto in termini oggettivi e corretti. Al contrario della ricerca svolta digitando il nome "media conciliazione", che spesso restituisce risultati che parlano della mediazione civile in termini negativi e mirano a screditarla. Volendo fare un esempio spiccio ma calzante, è come se un cittadino straniero cercasse informazioni sugli italiani utilizzando la parola "mafiosi", magari dopo averla sentita dire in tv. E' facile intuire il tipo di documenti nei quali egli si potrebbe imbattere e quale opinione potrebbe maturare nei nostri confronti.
Risulta pertanto evidente il biasimevole motivo per il quale i bastian contrari cerchino in tutti i modi di non incentivare la diffusione del vero nome della mediazione civile e di parlare, sempre e comunque, di "media conciliazione". Tutto ciò spiegherebbe l'utilizzo costante di un nome del tutto sconosciuto alla comunicazione istituzionale e sul quale fonti anche molto autorevoli si sono già pronunciate in modo preciso sottolineandone il contrasto con le definizioni dettate dalla legge (per tutte, la Guida al Diritto de Il Sole 24 Ore del 7 marzo 2011).
Se dunque è sempre stato evidente che il successo di questa riforma, definita da alcuni come epocale, si sarebbe giocato anche e soprattutto sul campo della comunicazione, ora che questa bizzarra strategia contro-informativa può essere finalmente chiara a tutti, coloro che ne sono gli artefici di certo non fanno una gran bella figura. A farne le spese è in particolare la loro credibilità, visto che, in un campo rigoroso quale è quello del diritto, simili "evoluzioni linguistiche" finiscono inevitabilmente per far sembrare colui che le compie semplicemente ridicolo.

(Si ringrazia Anna Russo e  Antonio Lanzillotti per l'articolo)

sabato 7 maggio 2011

Conflitto /Rimedio

Riportiamo un interessante studio di Elisabetta Silvestri - In Enciclopedia Treccani.
Buona lettura.
Giovanni Prati

Risoluzione delle Controversie

Il complesso mondo delle controversie e degli strumenti approntati da ciascun ordinamento per risolverle può essere analizzato utilizzando una pluralità di metodi di indagine, in funzione del risultato che si vuole ottenere: uno studio sociologico della tipologia delle controversie e delle loro cause remote, una ricognizione storica del modo in cui si sono sviluppati ed evoluti i metodi di composizione dei conflitti, una mera descrizione degli istituti ai quali il diritto positivo di uno specifico ordinamento affida il compito di definire le controversie, e così via. Nessun metodo di indagine, tuttavia, se impiegato da solo, è in grado di cogliere l'essenza del doppio legame esistente in ogni società fra le controversie che sorgono al suo interno e i modi in cui esse vengono risolte: "il modo in cui si litiga e si confligge dipende dal modo in cui esistono sbocchi al conflitto e sono predisposti culturalmente e socialmente rimedi" (v. Resta, 1999, p. 542). Esiste dunque un "circuito conflitto/rimedio" (ibid., p. 543), in virtù del quale il 'rimedio' (e, in particolare, il processo, ossia il 'rimedio' per eccellenza) diviene non soltanto il luogo in cui le controversie sono risolte, ma anche un "luogo di visibilità dei nuovi conflitti" (v. Rodotà, 1992, p. 171).
Alla luce dell'aumento della litigiosità che caratterizza tutte le società contemporanee, sorge il dubbio che il "circuito conflitto/rimedio" sia piuttosto un circolo vizioso: questo dubbio certamente sfiora anche chi presti una pur minima attenzione alle sconfortanti notizie che, quasi quotidianamente, i mezzi di comunicazione di massa diffondono sullo stato della giustizia civile nel nostro paese. Che il sistema dei 'rimedi' mediante i quali il nostro ordinamento si propone di risolvere le controversie attraversi da tempo una crisi gravissima è cosa nota, anzi fin troppo nota, come ben sa chi abbia la disavventura di dover attendere per un numero imprecisato di anni che la sentenza di un giudice ponga fine alla controversia di cui è parte. Ciò che gli interessati attendono, in realtà, non è che la controversia sia in qualche modo risolta, ma piuttosto che la composizione del conflitto produca un 'risultato' che essi possano percepire come accettabile, in quanto 'giusto' (v. Taruffo, 1997, pp. 315 ss.): non si può dimenticare, infatti, che la risoluzione di una controversia, qualunque sia il metodo attraverso cui la si ottiene, è in molti casi strumentale alla tutela di un diritto e quindi alla sua attuazione. Ne deriva che "il risultato pratico (risolvere il conflitto) conta, ovviamente, ma conta forse di più il modo in cui esso viene conseguito" (v. Taruffo, 1999, p. 780). Acquista rilevanza, quindi, il procedimento mediante il quale la controversia è composta e la sua rispondenza a parametri comunemente sentiti come manifestazione di basilari principî di giustizia, molti dei quali sono ormai presenti nelle carte costituzionali di vari ordinamenti, compreso il nostro. Analogamente, per i soggetti coinvolti non è indifferente che il 'risultato pratico' arrivi prima o dopo: è evidente, infatti, che laddove tardi la definizione del conflitto, si allontana nel tempo anche la possibilità che il diritto in contesa trovi attuazione.
Procedimento 'giusto', tempi ragionevoli e costi contenuti sono da tempo considerati gli elementi indispensabili dei metodi di risoluzione delle controversie che mettano a disposizione del cittadino una "giustizia dal volto umano" (v. Storme e Casman, 1978), riconosciuta nel suo valore di imprescindibile garanzia di civiltà di qualunque ordinamento che si proclami democratico. A partire dagli anni settanta, sotto la spinta di un movimento culturale noto come 'access to justice' (v. Cappelletti e Garth, 1978, pp. 5 ss.), si è andata diffondendo la consapevolezza che le strutture della cosiddetta 'giustizia formale', ossia quella dispensata dagli organi giudiziari di ciascun ordinamento, non fossero più in grado di assorbire (e quindi di risolvere) un numero sempre crescente di controversie, espressione di una litigiosità non tradizionale, ma collegata alle esigenze di tutela dei 'nuovi diritti' riconosciuti al singolo in quanto, ad esempio, lavoratore, consumatore, fruitore dell'ambiente, e così via (v. Denti, 1982, pp. 317 ss.).
Nell'interesse suscitato dal dibattito sulla informal justice (v. Abel, 1982; v. Nader, 1977) e sulle virtù della 'giustizia coesistenziale', alla quale è estranea l'ideologia dello scontro sottesa al procedimento giudiziario, che necessariamente si conclude con un vincitore e un vinto (v. soprattutto Cappelletti, 1993, pp. 282 ss.), si scorgevano le prime avvisaglie di un fenomeno che dalla ricerca di metodi di risoluzione delle controversie alternativi al processo avrebbe condotto nei decenni successivi a una vera e propria 'fuga dalla giurisdizione', in alcuni ordinamenti sistematicamente promossa come tecnica per allontanare dalle aule dei tribunali conflitti ritenuti più facilmente componibili nel 'privato' di procedure informali e non istituzionalizzate, in altri ordinamenti (come nel nostro) sperimentata invece come panacea destinata a rimediare i guasti causati da una pervicace incapacità di rendere più efficiente la giustizia statale.
Prima di passare a descrivere i più comuni metodi di risoluzione delle controversie disponibili sul mercato (perché ormai esiste effettivamente, almeno in certi ordinamenti, un vero 'mercato' dei metodi, formali e non, di risoluzione dei conflitti), sembra opportuno spendere ancora qualche parola relativamente allo stato della giustizia civile in Italia: questo, non solo perchè il lettore che non sia un 'professionista del diritto' è istintivamente portato a ricollegare la definizione delle controversie al processo, ma anche perché è convinzione di chi scrive che la centralità del processo come luogo privilegiato della risoluzione dei conflitti vada mantenuta e, se possibile, rafforzata. Solo riqualificando lo strumento-processo e, più in generale, la funzione giurisdizionale dello Stato sembra possibile contrastare gli effetti negativi di quel fenomeno che è stato efficacemente descritto come il dilagare di un "nuovo feudalesimo delle tutele extrapenali" e l'affermarsi di "microsistemi paragiurisdizionali rispondenti a logiche particolari" (v., per entrambe le citazioni, Ferrara e altri, 2000, c. 222): un fenomeno che per certo non favorisce l'attuazione del principio di uguaglianza garantito dall'art. 3 della Costituzione, ma che crea invece evidenti discriminazioni in danno di chi non abbia i mezzi necessari per accedere alle tante forme di tutela 'privilegiata' che si sviluppano al di fuori della giustizia pubblica.Alla crisi della giustizia civile sembra si addica il titolo di un aforisma di Adorno: "Parlarne sempre, non pensarci mai" (v. Adorno, 1951; tr. it., p. 66). Si potrebbe obiettare che i numerosissimi interventi legislativi subiti negli ultimi decenni dalle norme sul processo civile, da quelle sull'ordinamento giudiziario e infine da quelle costituzionali, con l'inserimento della garanzia del 'giusto processo' e della sua 'durata ragionevole' (ora prevista dall'art. 111, cc. 1 e 2 della Costituzione) dimostrano, al contrario, che l'attenzione del legislatore è costantemente rivolta alle sorti della giustizia civile. In realtà l'attenzione del legislatore si concentra essenzialmente sulla ricerca di possibili soluzioni alla crisi, senza preoccuparsi più di tanto di ricercarne le vere cause: si moltiplicano cosí gli interventi-tampone, le soluzioni abborracciate e dettate dall'emergenza, nella speranza che i tanti 'pannicelli caldi' provochino un qualche sollievo e risparmino allo Stato italiano l'imbarazzo dell'ennesima condanna pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per l'eccessiva durata del procedimento (v. Didone, 2000, pp. 871 ss.). E così, mentre molto si parla della crisi della giustizia civile senza mai decidersi a riformarla veramente, fioriscono le alternative 'private' al processo.


Quando si definisce il processo come metodo istituzionale di risoluzione delle controversie, si tiene conto del fatto che esso costituisce il tipico strumento al quale l'ordinamento affida il compito di comporre quel particolare conflitto di interessi che, secondo uno dei 'padri fondatori' del diritto processuale civile italiano, costituisce l'"elemento sostanziale della lite" (v. Carnelutti, 1929, p. 130) ed è quindi alla base di qualunque controversia. Sotto un altro profilo, l'impiego dell'attributo 'istituzionale' si ricollega alla circostanza che attraverso il processo lo Stato esercita una delle sue funzioni fondamentali, ossia quella giurisdizionale (v. Processo).
Un primo interrogativo che si pone trattando del processo come metodo di risoluzione dei conflitti di interessi è quello relativo all'individuazione di quali siano concretamente i conflitti che possono o debbono essere composti mediante il processo, e quindi con l'intervento di un giudice. Una possibile risposta a questa domanda adotta come criterio distintivo la rilevanza giuridica del conflitto: il processo è preordinato alla definizione dei conflitti che "coinvolgono situazioni soggettive riconosciute o qualificate dal diritto" (v. Taruffo, in Comoglio e altri, 1998, p. 25). Intuitivamente, si comprende che il possibile elenco delle situazioni soggettive alle quali ciascun ordinamento riconosce dignità di diritti tutelabili in sede giurisdizionale varia nel tempo e nello spazio. Meno intuitiva è invece la percezione di un altro importante aspetto del costante arricchimento del catalogo delle situazioni soggettive giuridicamente rilevanti: tale aspetto consiste nel ruolo determinante che il giudice svolge nel ritenere meritevoli di tutela interessi non espressamente regolati dal diritto sostanziale e nel creare, quindi, nuovi diritti. Si è così alterato il tradizionale rapporto tra ius e remedium che, negli ordinamenti di diritto codificato, postulava la preesistenza del diritto sostanziale rispetto alla possibilità di ottenerne tutela in sede giudiziale.
L'abbandono di concezioni profondamente radicate nella dogmatica giuridica è frutto di un'evoluzione lenta e, per certi versi, contrastata (v. Denti, 1989, pp. 11 ss. e 1986, pp. 469 ss.), un'evoluzione di cui qui sembra rilevante sottolineare uno dei più significativi riultati: il repertorio delle situazioni soggettive giuridicamente rilevanti e che, in quanto tali, possono costituire oggetto di controversie risolubili a opera del giudice è 'in divenire' e si sottrae a qualunque tentativo di darne una descrizione esaustiva che, anche con riferimento a un ordinamento dato, valga come "mappa prefabbricata delle situazioni qualificabili a priori come diritti" (v. ancora Taruffo, in Comoglio e altri, 1998, p. 26). In questa prospettiva, il processo rappresenta il 'luogo di visibilità' non solo di nuovi conflitti (v. sopra, cap. 1), ma soprattutto di nuove situazioni sostanziali che dal processo emergono come diritti suscettibili di tutela: valgano per tutti gli esempi del diritto alla salute, del diritto alla riservatezza o, ancora, del diritto a un ambiente salubre e non inquinato, tutti diritti estranei al repertorio tradizionale delle situazioni soggettive tutelabili giudizialmente, incentrato sui diritti reali e sui diritti di obbligazione.In una prospettiva che privilegi i diritti in relazione ai quali sorge una controversia, il processo acquista una dimensione di particolare importanza, ossia quella che lo vede come il principale strumento di attuazione di una serie di garanzie fondamentali preordinate al corretto esercizio della funzione giurisdizionale e, conseguentemente, alla tutela delle parti in conflitto. Fonte di queste garanzie è, nel nostro ordinamento, la carta costituzionale, le cui norme costituiscono la trama di un ben preciso modello di procedimento, al quale si ritiene debba conformarsi l'attività di qualunque organo chiamato a svolgere funzioni giurisdizionali (v. Andolina e Vignera, 1997, pp. 7 ss.). Il modello costituzionalmente imposto di processo, il cosiddetto 'processo dovuto', come lo si definisce per indicare l'insieme dei principî ai quali esso deve ispirarsi, con un chiaro riferimento alle due process clauses del V e XIV emendamento della Costituzione federale statunitense (v. Vigoriti, 1991, pp. 228 ss.), esprime fondamentalmente una garanzia di legalità e di giustizia: principî quali quello dell'imparzialità e dell'indipendenza del giudice, della sua soggezione alla legge, o ancora quello che impone l'obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie, come pure il principio che riconosce un incondizionato diritto di azione e difesa in giudizio, per citarne solo alcuni, costituiscono ormai elementi costitutivi di un modello processuale accolto nella generalità degli Stati democratici (v. Comoglio, 1991, pp. 673 ss. e 1994, pp. 1063 ss.).
Attraverso il processo, quindi, le controversie sono risolte nel rispetto di un sistema di garanzie, alcune esplicitamente sancite con riferimento alla giurisdizione e alla funzione giudiziaria, altre ricavate da norme costituzionali di carattere generale: non a caso si afferma che il ruolo del giudice è, innanzi tutto, quello "di un garante, che ha di mira il rispetto delle regole del gioco, e quindi la salvaguardia, nei conflitti sociali, dei principî fondamentali di libertà e di uguaglianza" (v. Denti, Il ruolo del giudice..., 1999, p. 175). Come garante, il giudice deve, innanzi tutto, assicurare che nessuna delle parti in contesa sconti nel processo le conseguenze della sua 'debolezza' sul piano sostanziale. L'attuazione del cosiddetto principio della parità delle armi e della garanzia del contraddittorio, intesa come reale possibilità per le parti di esplicare un'efficace difesa al fine di incidere sul contenuto della decisione che definirà la controversia, sono largamente affidati all'ufficio del giudice: questo, nonostante sia ancora diffusa l'idea per cui, essendo il processo 'cosa delle parti', qualunque espressione di attivismo da parte del giudice va considerata con sospetto.


Si è già accennato al fatto che l'inefficienza della giustizia civile ha determinato, negli ultimi decenni, la ricerca di metodi di risoluzione delle controversie alternativi al processo (v. sopra, cap. 1). Il fenomeno si è inizialmente manifestato negli Stati Uniti, dove la durata e gli alti costi del procedimento giudiziario, indotti dalla struttura accusatoria del processo, unitamente a un vertiginoso aumento della litigiosità, rendevano particolarmente pressante l'esigenza di sperimentare nuove risposte alla domanda di tutela proveniente dalla comunità. Alle indagini sulle ragioni che avevano reso la società americana una "litigious society" (v. Lieberman, 1983, pp. 3 ss.) si accompagnava la scoperta (o, talvolta, la riscoperta) di procedure 'informali', che favorissero la composizione dei conflitti al di fuori delle aule giudiziarie (v. Silvestri, 1987, cc. 310 ss.). Dagli Stati Uniti proviene anche l'acronimo ADR (Alternative Dispute Resolution), che indica, ormai quasi universalmente, tanto il movimento a favore della diffusione delle alternative al processo, quanto le procedure alla cui creazione questo stesso movimento ha contribuito: un "umbrella term" (v. Nolan-Haley, 1992, p.1) sotto il quale si nasconde, come si vedrà, un fenomeno dalle molte facce, non tutte propriamente rassicuranti.
Sull'onda del successo riscosso negli Stati Uniti, le alternative al processo si sono propagate un po' ovunque, e hanno incontrato un ambiente particolarmente favorevole alla loro diffusione negli ordinamenti europei anche per effetto della campagna promozionale intrapresa a vari livelli dagli organismi comunitari nel settore della tutela dei consumatori (v. Denti, 1996, pp. 54 ss.). Allo stato attuale, nel panorama europeo la 'punta avanzata' della sperimentazione di metodi alternativi è rappresentata dall'Inghilterra, dove le recenti riforme del processo civile hanno addirittura posto a carico del giudice l'obbligo di sollecitare le parti ad avvalersi di procedure 'private', che facilitino la composizione amichevole della controversia (v., da ultimo, Roberts, 2000, pp. 739 ss.).
Prima di passare ad occuparci delle alternative al processo di maggiore diffusione, è necessario fare alcune precisazioni.In primo luogo, quando si parla di metodi alternativi per la definizione dei conflitti si tende a non prendere in considerazione l'arbitrato. È pur vero che l'arbitrato costituisce l'alternativa al processo di più antica e consolidata tradizione (v. Arbitrato), ma è altrettanto vero che negli ordinamenti contemporanei questo istituto, che affida la risoluzione della controversia a un "giudice su misura" (v. Bernardini, 1998, p. 13) scelto dalle parti in virtù di un accordo negoziale, ha subito un processo di 'giurisdizionalizzazione' particolarmente accentuato, che ne ha fatto un "procedimento para-giudiziario" (v. Comoglio, 2000, p. 351) sostitutivo del processo ordinario (e non alternativo a esso) per certi settori di controversie. In effetti, le parti che compromettono in arbitri il conflitto che le divide non corrispondono affatto a quel modello di potenziale litigante, di modeste risorse e di altrettanto modeste pretese, al quale le alternative al processo si offrono come il metodo migliore per risolvere rapidamente e a costi contenuti controversie di ridotto valore economico. Peraltro, ciò non toglie che anche la tendenza a favorire la diffusione dell'arbitrato, ad esempio ampliando la tipologia delle situazioni sostanziali su cui gli arbitri possono pronunciare oppure promuovendo l'accesso ai cosiddetti 'arbitrati amministrati', ossia gestiti da apposite istituzioni pubbliche o private (v. Cuomo Ulloa, 1998, pp. 197 ss.), possa farsi rientrare in un concetto ampio di 'diversione' dei conflitti dalla giustizia formale.
In secondo luogo, è opportuno tenere a mente che i metodi alternativi sviluppatisi negli Stati Uniti sono moltissimi: solo alcuni sembrano aver attecchito in altri ordinamenti, e non solo per le difficoltà insite in qualunque 'trapianto' di istituti in sistemi che non presentino le identiche caratteristiche di quello di provenienza. Alcuni metodi, infatti, non sembrano il risultato di una seria ricerca di strumenti che consentano di 'fare giustizia' anche al di fuori delle aule giudiziarie, ma appartengono piuttosto a una sorta di risibile 'folklore' della dispute resolution, del quale certamente non deve essere favorita la diffusione (si veda, ad esempio, l'approccio 'alternativo' alla risoluzione delle controversie propugnato dai fautori della 'giustizia olistica': v. Van Zyverden, 1996).  


Le alternative al processo vengono convenzionalmente classificate in relazione al risultato perseguito: una decisione vera e propria della controversia, oppure una soluzione convenzionale del conflitto, espressione di un accordo raggiunto dalle parti: si parla quindi di modello 'valutativo' e di modello 'conciliativo' (v. Green, 1984, pp. 245 ss.). Entrambi i modelli si avvalgono degli uffici di un soggetto terzo rispetto alle parti in disaccordo, affidandogli però funzioni assolutamente diverse: nelle procedure valutative, il terzo decide la controversia come potrebbe fare un giudice o un arbitro, mentre nelle procedure conciliative il ruolo del terzo si limita a favorire il dialogo tra le parti, mettendole in condizione di raggiungere una soluzione soddisfacente per entrambe.I metodi di tipo conciliativo sono senza dubbio quelli che meglio rispondono alla 'filosofia' delle alternative al processo: principio cardine di questa filosofia è che tutte le controversie, qualunque ne sia la natura o l'oggetto, sono suscettibili di una soluzione concordata tra le parti. Il processo - si osserva - è un evento traumatico, di cui le parti non sono protagoniste, ma spettatrici involontarie, se non addirittura vittime. La decisione del giudice è percepita spesso come il Diktat di un sistema che sempre più condiziona l'esistenza dei privati, limitando i loro spazi di autonomia. Occorre quindi 'riappropriarsi' delle controversie, risolverle pacificamente, ripudiando la logica del 'chi vince prende tutto' e ricercando invece soluzioni che, in quanto concordate, soddisferanno le esigenze di entrambe le parti, comprese quelle psicologiche ed emozionali, e consentiranno loro di mantenere un rapporto non conflittuale e durevole.
Questa idilliaca concezione di una società pacificata attraverso il ricorso a procedure non giurisdizionali di tipo conciliativo ha raccolto consensi soprattutto negli Stati Uniti, dove gli alti costi della giustizia formale (inaccessibile alle fasce sociali medio-basse) hanno favorito il sorgere di un numero sterminato di iniziative private operanti nel campo della dispute resolution attraverso un'offerta 'personalizzata' di servizi, pubblicizzati come insuperabili nel garantire una definizione rapida e poco costosa delle controversie. Dagli Stati Uniti il 'verbo' delle alternative al processo si è diffuso anche in Europa, dove le esperienze che, attraverso l'istituzione di organismi speciali, utilizzano la conciliazione o la mediazione come metodi di risoluzione delle controversie, sono ormai tanto numerose da indurre qualcuno ad affermare l'esistenza di una vera e propria "concezione europea della giustizia stragiudiziale" (v. Alpa, 1997, p. 403). Partecipe di questa concezione (anche se sposata con qualche ritardo rispetto ad altri Stati) è anche il nostro ordinamento, dove si stanno rapidamente moltiplicando le iniziative che, con varie denominazioni, promettono ai cittadini una giustizia 'alternativa', presentata come migliore per definizione rispetto a quella ordinaria. Del resto, tra i più convinti sponsors dei metodi alternativi si annovera anche il legislatore che, negli ultimi anni, ha promosso un'intensa campagna diretta a incentivare la cosiddetta "composizione autodeterminativa dei conflitti" (v. Ferrara e altri, 2000, c. 226): decodificando questa espressione altisonante, si osserva che, in concreto, l'intervento del legislatore si è limitato a introdurre nuove procedure conciliative e a configurarle talvolta come un 'passaggio obbligato' al quale non può sottrarsi chi intenda agire in giudizio (cosí, ad esempio, nelle controversie individuali di lavoro o in quelle relative a contratti di subfornitura industriale).L'esperienza italiana, come del resto quella degli altri ordinamenti europei, sembra comunque ancora lontana dal produrre quella fiorente 'industria' delle alternative private al processo che caratterizza invece il panorama statunitense. Va tuttavia rilevato che, anche al di qua dell'Atlantico, possono scorgersi segni di quella 'apocalisse legale' che negli Stati Uniti ha incrinato la fiducia nel sistema e nella legge come principale strumento per risolvere i problemi sociali (v., anche per la citazione, Galanter, 1985, p. 540), determinando la 'disaffezione' nei confronti del processo e la fuga verso metodi informali di risoluzione dei conflitti.  


Si è accennato in precedenza al fatto che l'inefficienza della giustizia formale (intesa come quella dispensata dagli organi giurisdizionali dello Stato) ha costituito la più immediata causa della ricerca di alternative al processo, che assicurassaro una rapida e poco costosa definizione delle controversie, specie di quelle bagatellari, per le quali il ricorso a un giudice risultava una scelta decisamente antieconomica. Inizialmente, dunque, i metodi alternativi si sono proposti come la risposta a esigenze di tutela che la giustizia pubblica finiva col lasciare insoddisfatte: questa, almeno, era l'ispirazione democratica delle alternative al processo che veniva veicolata da chi propugnava un estensivo ricorso ai metodi alternativi come strategia finalizzata a garantire una giustizia 'migliore', in quanto accessibile a strati sempre più ampi della comunità (v. Levin e Wheeler, 1979).
Recenti studi statunitensi hanno messo in evidenza come la promozione dei riti alternativi, soprattutto di quelli sottratti a qualunque forma di controllo pubblicistico, si presti a un'interpretazione meno positiva di quella che ne danno i fautori della 'privatizzazione' della giustizia (in particolare, v. Stempel, 1996, pp. 297 ss.). Si è osservato infatti che i metodi alternativi facilmente degenerano in una giustizia 'di seconda classe', verso la quale sono costretti a ripiegare coloro che non possono permettersi di affrontare i costi e i tempi lunghi del processo; addirittura, si è avanzato il dubbio che l'inconfessata aspirazione degli 'inventori' dei metodi alternativi fosse proprio quella di conservare alla giustizia formale un carattere fortemente elitario, dirottando verso soluzioni di ripiego la definizione dei cosiddetti 'casi-spazzatura', poco remunerativi per gli avvocati e troppo banali per meritare l'attenzione di giudici molto compresi nel loro ruolo di "oracoli del diritto" (secondo la definizione di J.P. Dawson: v., 1968, pp. 1 ss. e pp. 80 ss.).
Che questa ricostruzione sia attendibile o meno, resta il fatto che i metodi alternativi spesso si distinguono per la mancanza di quelle garanzie che il processo assicura: il carattere 'informale' della procedura è troppo frequentemente sinonimo di scarsa attenzione prestata a problemi che investono, ad esempio, l'indipendenza, l'imparzialità e anche la competenza specifica dell'organo giudicante 'alternativo'. Laddove poi il metodo alternativo miri al raggiungimento di una risoluzione convenzionale della controversia, appare inquietante l'assenza di un soggetto che, come il giudice, si faccia garante della correttezza del procedimento e della legalità dell'accordo stipulato dalle parti, specie quando una sia contrattualmente più debole dell'altra (v. Silvestri, 1999, p. 326). Sembra insomma che esistano buone ragioni per domandarsi se la 'fuga dalla giustizia ingiusta' dei tribunali (v. Chiarloni, 1996, p. 61) verso forme alternative di risoluzione delle controversie sia davvero una strategia vincente o se piuttosto, nel calcolo costi-benefici, il sacrificio di garanzie fondamentali, pur ripagato da indubbi vantaggi in termini di rapidità, semplicità e non dispendiosità delle procedure, non rappresenti comunque "un prezzo globale troppo alto da pagare, in termini di civilltà e giustizia" (v. Comoglio, 2000, p. 371). (V. anche Arbitrato; Concicliazione e mediazione; Giustizia, accesso alla; Processo).  

( Fonte :  Elisabetta Silvestri - Conciliazione/controversie in “Enciclopedia Scienze Sociali” – Treccani )

giovedì 5 maggio 2011

Tutte le bugie raccontate sul suo conto della Mediazione

La mediazione civile e commericale e tutte le bugie raccontate sul suo conto
La mediazione civile può essere facoltativa. Riguardo ai diritti disponibili, quindi, si ha sempre la possibilità di avvalersi di un mediatore piuttosto che intentare causa in tribunale. È invece obbligatoria prima di agire in giudizio per questioni riguardanti particolari materie indicate dalla legge (diritti reali, locazione, comodato, affitto d'azienda, divisioni, successioni ereditarie, responsabilità medica, diffamazione, contratti assicurativi, bancari e finanziari; dal 2012 anche per condominio e danni da circolazione di veicoli e natanti). Infine, può essere demandata dal giudice. Nell'ambito della mediazione civile, la legge definisce espressamente i concetti fondamentali di:
  • mediazione (l'attività svolta da un terzo finalizzata a risolvere una controversia);
  • mediatore (il soggetto qualificato che svolge la mediazione); 
  • organismo di mediazione (l'ente pubblico o privato presso il quale si svolge);
  • conciliazione (l'eventuale risultato positivo della mediazione).
Come strumento di risoluzione delle controversie, la mediazione civile è oggettivamente più semplice, più veloce e più economica rispetto a una causa civile. Infatti, visti gli ottimi risultati già ottenuti all'estero, è stata introdotta nel nostro Paese allo scopo di far diminuire il numero di cause civili da far giungere in tribunale e poter smaltire così l'enorme arretrato giudiziario esistente. Sono in tantissimi a ritenere questo rivoluzionario strumento molto valido e in grado di far raggiungere ottimi risultati. Le uniche persone che sono contrarie alla mediazione civile sono quelle che hanno l'interesse, soprattutto economico, a lasciare la giustizia civile italiana nella grave situazione in cui si trova. Tant'è che esse hanno dato libero sfogo alla fantasia elaborando una serie di falsità e bugie sulle quali è opportuno fare chiarezza. Qui di seguito, le riportiamo.

Non è vero che la mediazione civile si chiami "media-conciliazione"
Il termine "media-conciliazione" è stato inventato da coloro che sono ostili alla riforma per ridicolizzarla e per creare confusione. Infatti, è utilizzato in prevalenza da costoro. Fonti anche molto autorevoli si sono già espresse sull'inesattezza di questo nome e sul fatto che contrasti con le definizioni dettate dalla legge (Guida al Diritto del 7 marzo 2011). Non a caso, il ministero della Giustizia utilizza soltanto i nomi mediazione civile oppure mediazione civile e commerciale.

Non è vero che la mediazione civile allunga i tempi per ottenere giustizia
Per legge, il procedimento di mediazione può avere una durata massima di quattro mesi. Quindi, un tempo sufficiente per gestire in modo appropriato una questione e per tentare di risolvere definitivamente la controversia, ma di gran lunga inferiore ai 9 anni di durata media di una causa civile in Italia.

Non è vero che la mediazione civile vada a "privatizzare" la giustizia
Il ricorso al tribunale è sempre possibile ma, su alcune materie, soltanto dopo aver fatto un ultimo tentativo per arrivare a una conciliazione, la mediazione civile, appunto, che si può svolgere presso organismi di mediazione, sia privati che pubblici, scelti liberamente. Inoltre, il mediatore civile non è un giudice, quindi non stabilisce chi ha ragione e chi ha torto, ma aiuta le parti a trovare una soluzione che sia in grado di soddisfare entrambe.

Non è vero che la mediazione civile abbia un costo di 9.200 euro
Il compenso del mediatore è proporzionato al valore della lite. È pari a 9.200 euro soltanto per le controversie di valore superiore ai cinque milioni di euro. Per ogni tipo di controversia, comunque, il costo della mediazione civile non soltanto è sempre certo, ma è di gran lunga inferiore a quanto si spenderebbe intentando una causa civile. Inoltre, la mediazione prevede agevolazioni e ulteriori riduzioni, ed è gratuita per chi non può permettersela.

Non è vero che la mediazione civile sia un costo aggiuntivo senza garanzie
La mediazione civile ha costi e tempi certi prestabiliti dalla legge. Invece, una causa civile ha una durata molto più lunga e sempre incerta (la media nazionale è di 9 anni) e un costo sicuramente maggiore e di ammontare indeterminato. Quanto alle garanzie, intentare causa in tribunale non significa avere la garanzia di vincere o di ottenere giustizia. Tutt'altro. In sede di mediazione civile, invece, è altamente probabile che le parti, interagendo tra di loro e con il mediatore, possano individuare una soluzione che soddisfi tutti in modo veloce ed economico.
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( Si ringrazia per la segnalazione Anna Russo)

C.N.F. mette mano al codice deontologico.

Il C.N.F. mette mano al codice deontologico: che fine faranno quegli organismi di conciliazione ed enti formativi privati rappresentati legalmente da avvocati?

Il Consiglio Nazionale Forense (C.N.F.), al di là di sviluppi futuri giurisdizionali in materia di mediazione, ha deciso che è necessario entrare nel vivo della mediazione civile apportando nuove e serie regole deontologiche. Le novità deontologiche da valutare ed adottare sono indirizzate per disciplinare il comportamento degli avvocati che assumono la funzione di conciliatore da una parte e le possibili incompatibilità, conflitti d'interessi e responsabilità. Bisogna dare atto che questo mettere mano al codice deontologico, da parte del CNF, mette da parte tutte le polemiche nate dopo l'entrata in vigore del regolamento attuativo del D. Lev. 28/2010 ed entra nel vivo dei punti di criticità della citata legge. In materia di mediazione civile è tempo di riforme deontologiche serie ed efficaci per gli avvocati così come per tutti gli ordini professionali. Il CNF nel mettere mano ad un nuovo codice deontologico intende disciplinare le possibili incompatibilità, i conflitti d'interessi, e la responsabilità della "proposta di conciliazione non conforme al diritto del conciliatore. E' un'autodifesa orgogliosa quella del CNF, in quanto serve a preservare la dignità e la professionalità dell'avvocato, è un impegno prioritario quello della riforma del codice deontologico dell'avvocatura. Non più, dunque avvocati- amministratori o rappresentanti legale di enti a scopo di lucro o avvocati/ imprenditori, soggetti a fallimento, non più lesioni di principio di imparzialità, di conflitti d'interessi e/o di incompatibilità. Che fine faranno quegli organismi di conciliazione ed enti formativi rappresentati legalmente da avvocati? Il RD 1578/1933 sulla legge professionale in particolare l'articolo 3 comma 1 è molto chiaro in proposito, l'esercizio imprenditoriale è proibito sia se fatto in nome proprio che per interposta persona. Ad avviso ANPAR non deve essere il CNF a pagare delle responsabilità che altri hanno accumulato in tanti anni di continue contestazioni per il mantenimento di privilegi personalistici, alla luce di disposizioni legislative citate. Chi doveva controllare e non ha controllato? In merito ai rischi di una proposta non giuridicamente corretta da parte del conciliatore, almeno per i primi tempi, è bastevole, che gli organismi nel proprio regolamento - proposta di conciliazione non conforme al diritto del conciliatore - inseriscano il divieto per il conciliatore di avanzare proposte così come fatto l'organismo internazionale di conciliazione & arbitrato dell'ANPAR. Facessero altrettanto gli altri organismi pubblici e privati per cui questo rischio si eliminerebbe definitivamente.

( Fonte : ufficio stampa A.N.P.A.R.)

mercoledì 4 maggio 2011

Il cittadino ha bisogno di comportamenti lineari. Basta offese contro i mediatori.

E' perfettamente vero che ognuno può esprimere un parere sulla mediazione civile ma ciò non significa discreditare il Ministro di Giustizia. Ancora veleni sulla mediazione civile da parte dell'O.U.A. mentre un avvocato su mille barerebbe con la mediazione - dice Pecoraro, presidente dell'ANPAR (Associazione Nazionale per l'arbitrato e la conciliazione). Ai cittadini non piace il comportamento all'insegna della polemica da parte di questi pochi avvocati, che lanciano veleni sul Ministro, solo perchè si è eretto a difesa dei cittadini contro la casta. Il Ministro e i funzionari del ministero fanno di tutto affinchè la legge venga rispettata. Non è vero che la circolare del 4 aprile c.a, "acuisce profili di anticostituzionalità, perchè il decreto legislativo non consente&n! bsp; di individuare criteri di qualità per la formazione dei mediatori e requisiti idonei di competenza". Il mediatore, - là dove il regolamento lo prevede - "potrebbe ragionare con l'unica parte presente, sul ridimensionamento o sulla variazione della sua pretesa da comunicare all'altra parte che non si è presentata, come proposta dello stesso soggetto in lite e NON il mediatore". Dunque, nessun diritto violato e nessuna mediazione unilaterale, solo il rispetto della volontà del cittadino. Mi interessa particolarmente sapere, continua Pecoraro, per quale motivo l'O.U.A. nulla dice in merito ad avvocati che ricoprono la carica di rappresentanti legali in società di capitali che si sono costituiti sia in enti formativi che in organismi di conciliazione. Il tutto in barba alla tanta invocata legge professionale che recita "l'esercizio del! le professioni di avvocato e di procuratore è incompatibile con l'esercizio di attività imprenditoriali in nome proprio o in nome altrui". L'O.U.A. ha sempre detto che la mediazione è "arricchimento economico" per organismi ed enti formativi.Queste sì che sono situazioni anomale nella mediazione civile come mai fanno finta di non conoscerle? Da tutto quanto dice l'O.U.A. fino ad oggi non riesco a raccogliere nessun barlume di verità, ma solo azzardate previsioni di incompetenza e sollevamento di ansie nei confronti della categoria dei mediatori. Queste sono tendenze preoccupanti alle quali bisogna porre rimedio. L'ANPAR quale associazione regolamentata rappresentativa degli interessi legittimi dei mediatori se, non finisce lo stillicidio di false notizie sulla figura del conciliatore/mediatore, sugli enti di formazione e sugli organismi di conciliazione, da parte dell'O.U.A - assicura Pecoraro - è costretta a prendere una serie di provvedimenti a tutela delle citate categorie, magari attivando una richiesta di risarcimento danni attraverso l'avvio di una procedura conciliativa, anche perchè gli estremi ci sono tutti.

( fonte : Ufficio stampa A.N.P.A.R. 04/05/11)

MedMediaconciliazione: OUA impugna ultima Circolare del Ministero della Giustizia

Maurizio de Tilla, Presidente Oua: “È un assurdo, il Ministero della Giustizia si fa beffa del diritto e con una circolare prevede la mediazione unilaterale. Come si può avviare una mediaconciliazione con una sola delle parti: il conciliatore che procede da solo senza la presenza di entrambe le parti è un assurdo giuridico che contrasta con il buonsenso e la legge. L’ impugnazione dell’Oua è stato un atto dovuto”.

L’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana, Oua, insieme a diversi Ordini, Associazioni forensi e singoli avvocati, ha impugnato la circolare del Ministero della Giustizia su: “Regolamento di procedura e requisiti dei mediatori” del 4 aprile scorso. L’impugnazione è stata presentata dagli avvocati Giorgio Orsoni e Maria Grazia Romeo.

Per il presidente dell’Oua, Maurizio de Tilla «la circolare prosegue con l’impianto del regolamento attuativo e acuisce i profili di incostituzionalità del decreto legislativo, perché non consente di individuare criteri di qualità per la formazione dei mediatori e requisiti idonei di competenze, nonché perché si prevede che il procedimento di mediazione sia condizione di procedibilità della domanda giudiziale».

«È un assurdo – conclude de Tilla – il Ministero della Giustizia si fa beffa del diritto e con una circolare prevede la mediazione unilaterale. Come si può avviare una mediaconciliazione con una sole delle parti: il conciliatore che procede da solo senza la presenza di entrambe le parti è un assurdo giuridico che contrasta con il buonsenso e la legge. Qualcuno al Ministero continua a far finta che non sia successo nulla, eppure è un fatto che il decreto legislativo sia stato rimandato alla Corte Costituzionale. La nostra impugnazione della circolare ministeriale è uno dei motivi aggiuntivi al precedente ricorso al Tar del Lazio: un atto dovuto. E il 23 giugno continueremo la nostra protesta con un’ulteriore astensione dalle udienze mentre probabilmente vi saranno numerose altre ordinanze dei giudici di rimessione alla Corte Costituzionale. Il Ministero della Giustizia si deve rendere conto che va subito eliminata la obbligatorietà della mediaconciliazione che è stata esclusa in Europa da tutti i Paesi.»

( Fonte : http://www.altalex.com/ Roma, 2 maggio 2011)

Obblighi antiriciclaggio estesi al mediatore

Il quadro degli adempimenti antiriciclaggio gravanti sui professionisti si arricchisce di un altro tassello, almeno per coloro che intendano estendere alla mediazione l’ambito delle attività svolte.

Il DLgs. 28/2010 ha infatti novellato l’art. 10 del DLgs. 231/2007, aggiungendo la mediazione all’elenco delle attività che comportano l’insorgere degli obblighi antiriciclaggio in capo ai destinatari della normativa.
Invero, l’art. 10 individua una “zona franca” abbastanza significativa, in quanto esclude espressamente gli obblighi di identificazione (rectius: adeguata verifica) e registrazione; nondimeno, all’esito di tale integrazione anche la mediazione diviene attività in relazione alla quale, in capo al professionista, sussistono alcuni degli obblighi previsti dalla normativa antiriciclaggio.

L’attenzione, per il professionista che svolge l’attività di mediazione, deve dunque essere focalizzata sui restanti obblighi antiriciclaggio di cui al DLgs. 231/2007: in primis, la segnalazione delle operazioni sospette (art. 41 e ss.), ma anche la comunicazione al Ministero dell’Economia e delle Finanze delle violazioni all’uso del contante (art. 51), nonché la formazione del personale (art. 54).

L’applicazione della normativa antiriciclaggio al professionista-mediatore pone alcune questioni di non scarso rilievo, che spaziano dall’ambito applicativo dell’obbligo di segnalazione fino alla corretta individuazione degli indicatori di anomalia e delle modalità di segnalazione applicabili al caso di specie.

Per quanto concerne l’ambito applicativo dell’obbligo di segnalazione, sotto il profilo soggettivo ci si è chiesti se lo stesso debba essere assolto esclusivamente dai mediatori ovvero anche dagli organismi di mediazione. L’art. 10 non contribuisce alla soluzione del problema, in quanto si limita a fare riferimento alla “mediazione” ai sensi dell’art. 60 della L. 69/2009. La relativa definizione é contenuta nell’art. 1, comma 1, lett. a) del DLgs. 28/2010, in virtù del quale la mediazione è “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”.

Dalla formulazione letterale della norma emerge con evidenza che l’attività cui sembra riferirsi l’art. 10 è quella posta in essere dal mediatore, cioè dalla persona fisica che, ai sensi della successiva lett. b) dell’art. 1, svolge la mediazione.
Dunque, volendosi attenere a un’interpretazione letterale, si potrebbe concludere che l’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette grava esclusivamente sul mediatore.

Una diversa interpretazione, di carattere estensivo, si fonda sul presupposto che il termine “mediazione” debba essere inteso con riferimento all’intero procedimento che si svolge innanzi all’organismo di conciliazione. Quest’ultimo è depositario della documentazione inerente alla questione oggetto della mediazione e si occupa dei relativi adempimenti (ricezione della domanda, quantificazione delle spese da sostenere, individuazione del mediatore, fissazione dell’incontro, comunicazione della domanda alla controparte): dunque, potrebbe venire a conoscenza di operazioni sospette fin dall’atto introduttivo.
Se ne desume che l’obbligo di segnalazione gravi sia sul mediatore sia sull’organismo di conciliazione.
Quest’ultima tesi, tuttavia, non appare condivisibile.

Pur volendo tralasciare il tenore letterale della disposizione, deve soffermarsi l’attenzione sulla nozione di “sospetto”, così come circoscritta dall’art. 41 del DLgs. 231/2007, che sembra poter essere ricondotta molto più facilmente all’attività esercitata dal mediatore che a quella svolta dall’organismo di conciliazione. Non solo. L’individuazione degli organismi di conciliazione quali destinatari di obblighi antiriciclaggio comporterebbe la predisposizione, da parte degli stessi, di complessi presidi interni (ad esempio, un idoneo servizio antiriciclaggio).
Per tali ragioni si ritiene che l’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette debba gravare esclusivamente sul mediatore, e non anche sull’organismo di conciliazione.

Il mediatore, attraverso l’esercizio dell’attività di mediazione e nel contraddittorio delle parti, è posto senz’altro in condizione di acquisire una conoscenza più approfondita delle informazioni rilevanti in merito alla vicenda oggetto della mediazione. In più, ai fini di un’efficace prevenzione dei reati di riciclaggio, la segnalazione effettuata dal mediatore meglio risponde alle evidenti esigenze di tempestività e snellezza della procedura di cui all’art. 41 e ss. del DLgs. 231/2007. Infine, il mediatore può essere un soggetto già tenuto agli adempimenti antiriciclaggio nello svolgimento della professione, come nel caso del dottore commercialista e dell’esperto contabile. In tale ipotesi, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette, egli potrà tener conto anche del profilo di rischio associato al cliente in sede di adeguata verifica, adempimento quest’ultimo richiesto al professionista e non al mediatore.

( fonte: http://www.eutekne.info/Sezioni/Art_337860.aspx)

martedì 3 maggio 2011

Il garante blinda la mediazione

Infocamere -  Il Sole 24 Ore – 03 maggio 2011

Mediazione civile a prova di privacy. Con un provvedimento e due autorizzazioni il Garante blinda infatti gli organismi, pubblici o privati che siano chiamati a gestire le procedure rese obbligatorie dallo scorso marzo per una serie di controversie civili. E autorizza ministero della Giustizia, organismi di mediazione ed enti di formazione a trattare i dati giudiziari per la verifica dei requisiti di onorabilità dei mediatori.
Andrea Maria Candidi e Antonello Cherchi
Mediazione civile a prova di privacy. Con un provvedimento e due autorizzazioni il Garante blinda infatti gli organismi, pubblici o privati che siano chiamati a gestire le procedure rese obbligatorie dallo scorso marzo per una serie di controversie civili. E autorizza ministero della Giustizia, organismi di mediazione ed enti di formazione a trattare i dati giudiziari per la verifica dei requisiti di onorabilità dei mediatori. Di fatto, il presidente Francesco Pizzetti lancia una ciambella di salvataggio all’intero meccanismo, che altrimenti avrebbe rischiato di arenarsi di fronte ai vincoli legati al trattamento di informazioni tutelate dalle norme sulla privacy. Nel mirino dell’authority i dati sensibili e giudiziari che inevitabilmente devono essere trattati dai soggetti accreditati dal ministero della Giustizia. Il riferimento, ad esempio, è alle informazioni concernenti lo stato di salute delle persone che entrano in gioco nelle mediazioni attivate per il risarcimento del danno per colpa medica oppure ai dati relativi alle sentenze di condanna in virtù delle quali è possibile chiedere il ristoro di un danno attraverso la procedura di mediazione. Con i tre atti firmati il 21 aprile scorso – per due dei quali (le autorizzazioni) la pubblicazione è attesa sulla Gazzetta Ufficiale del 3 maggio 2011 – il Garante semplifica adempimenti e procedure degli organismi, mantenendo al contempo alta la guardia sui diritti e le libertà delle parti coinvolte. Innanzitutto, per quanto riguarda i soli enti di natura pubblica, il provvedimento n. 160 contiene in allegato un documento che indica i tipi di dati e di operazioni eseguibili in relazione alla finalità di rilevante interesse pubblico. Gli articoli 20 e 21 del Codice della privacy (Dlgs 196/2003) permettono infatti ai soggetti pubblici il trattamento di dati sensibili e giudiziari solo se autorizzato da una espressa norma di legge. Considerato, però, che le disposizioni che disciplinano la materia della conciliazione – il Dlgs 28/2010 e il Dm Giustizia 180/2010 – si limitano a specificare la sola finalità di rilevante interesse pubblico e non indicano invece i tipi di dati e le operazioni eseguibili, ciò obbliga i “mediatori pubblici” a identificare con un regolamento le informazioni personali utilizzabili e le relative finalità perseguite. Regolamento che deve ricevere, prima di diventare operativo, il parere del Garante. L’authority della riservatezza ha, però, giocato d’anticipo e – visto che nessun organismo di mediazione l’ha finora chiamata in causa – ha predisposto, insieme al ministero della Giustizia, un regolamento tipo, che si può utilizzare senza aspettare il via libera dell’autorità, per il trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di salute, la vita sessuale, l’origine razziale o etnica, le convinzioni religiose e anche informazioni di carattere giudiziario. Naturalmente, questi dati possono essere utilizzati solo nell’ambito dell’attività di mediazione obbligatoria. Gli altri due provvedimenti sono invece figli della possibilità riservata al Garante di rilasciare autorizzazioni generali per il trattamento dei dati sensibili (autorizzazione n.161) e giudiziari (autorizzazione n.162), così come previsto dagli articoli 26 e 27 del Codice della privacy. Il primo provvedimento autorizza gli organismi di mediazione privati al trattamento dei dati sensibili. Mentre il secondo dà l’ok in pratica a tutti i soggetti coinvolti – organismi di mediazione, pubblici o privati, enti di formazione e ministero della Giustizia – a trattare i soli dati giudiziari relativi ai requisiti di onorabilità richiesti dalle norme sulla conciliazione a soci. associati, amministratori e rappresentanti degli enti e organismi e anche ai singoli mediatori. Entrambe le autorizzazioni hanno però una scadenza: il Garante ha infatti preferito la via dell’efficacia temporale, fino al 30 giugno 2012, in attesa del completamento del quadro normativo della conciliazione.